sabato 13 aprile 2019

Incontrando Benedetti


Per l'autore la psicopatologia schizofrenica dipende da un sostanziale disturbo della capacità di Simbolizzazione, che impedisce la creazione del simbolo del Sé. Tale assenza, a sua volta, rende impossibile una relazione del Sé con l'oggetto e con se stesso sufficientemente stabile da dare un senso di continuità, ma sufficientemente libera da non portare l'individuo a sentirsi alla mercé dell'altro. Questo porta i malati ad essere vagamente consci delle sensazioni e delle rappresentazioni che sono all'opera nella loro soggettività, senza per questo arrivare a comprenderle, perché manca loro la capacità di oggettivarle, di collocarsi di fronte ad esse, il che rende l'introspezione un'esperienza estremamente penosa, consistente nel non poter creare immagini di sé: si hanno così delle sensazioni, ma è impossibile osservarsi e comprendersi.

Prima di proseguire mi è stato utile riprendere le definizioni di segno e di simbolo. Il segno viene inteso come una correlazione diretta fra significante e significato, dove il primo sta per forma visiva ed espressiva, ed il secondo per contenuto, un “qualcosa d'altro” a cui il primo rimanda. Mentre nei segni il “qualcos’altro” è un contenuto immediato e preciso, nel simbolo le possibilità si ampliano. Il simbolo non comprende solo una associazione di contenuti, ma un insieme di emozioni che partono dal vissuto della persona e che possono avere un valore universale: la dove il segno definisce, il simbolo amplia.

Se la capacità di simbolizzazione è perduta con essa scompare la possibilità di creare un simbolo del Sé, che rappresenta la primaria esperienza di simbolo, qualcosa che se pur instabile, nella sua polisemia e magmaticità, perdura attraverso lo scorrere del tempo, gli incontri e le situazioni dando una esperienza di continuità dell'esistenza. Il terrore sperimentato dal soggetto schizofrenico nel momento in cui si affaccia a tale polisemia e magmaticità, lo porta all'ipersimbolismo nel quale tutto sembrerebbe simbolo, un gesto di qualcuno è una accusa, un incontro per strada è un invito, un colore intravisto nella folla è una conferma, ma che in realtà è un segno concreto e diretto, senza alcuna convenzionalità e interpretabilità. Da una realtà polisemica, si arriva ad una realtà spaccata in una infinità di segni che rimandano ad un unico significato persecutorio ed estatico per il soggetto.

Contrapposta alla Simbolizzazione vi è per Benedetti la Scissione, dove non vi è coesistenza di significati ma separazione: una separazione inconciliabile tra pulsioni e dettami morali e una separazione assoluta tra lo stato di comunione con l'altro e il ritiro autistico. La scissione più catastrofica avviene tra Sé Simbiotico e Sé separato, tale scissione implica la coesistenza di due stati assoluti e contraddittori, alternando uno stato di fusione con il mondo, ad uno di ritiro in sé. Tale scissione porta all'oscillazione tra la simbiosi “io sono l'universo, il sole, io sono te” all'autismo “non esiste niente fuori di me, ogni cosa è inesistente”.
Questo porta i pazienti ad essere contemporaneamente fusi e separati nel loro rapporto con il mondo e tale situazione viene sostenuta dal deficit di integrazione del paziente schizofrenico che si fa più forte ogni volta che la capacità di far coesistere le differenze viene messa alla prova. Il paziente messo di fronte all'angosciante incapacità di rimanere in relazione all'altro se non a costo di una profonda confusione tra se stesso e l'altro e il terrore che l'altro possa entrare in lui, reagisce così con la chiusura in un vissuto di non esistenza e alla strutturazione del delirio che garantisce quella permanenza e invarianza di cui sente dolorosamente bisogno. Ed ecco che il paziente reagisce collegando a sé tutto ciò che lo circonda,(delirio di riferimento), oppure cercando un'identità razionalizzandone l'assenza (“io non sono nessuno, nulla esiste”) oppure dilatandola (“io sono dio”).
Tale perdita di realtà è compensata dalla ricostruzione attraverso neomorfismi, neologismi, sistematizzati nelle costruzioni deliranti. Il delirio rappresenta il “tentativo di nascondere ciò che non è simbolizzato, ciò che è stato scisso ma che, pur non rappresentabile, non può essere eliminato in quanto è essenziale.”

Il Sé che si va a costruire in questo modo, un Sé delirante, perseguitato da una realtà che diventa riflesso di se stesso, è pur sempre l'unica forma di esistenza per il paziente schizofrenico, ecco perché l'interpretazione non può che essere rifiutata in quanto rischia di privarlo dell'unico Sé che è riuscito a costruirsi.

E' necessario che prima il paziente abbia potuto procurarsene un altro, fondato sulla dualità dello scambio affettivo, attraverso la creazione di simboli a partire dalle immagini del paziente.

Benedetti propone quindi l'immersione nel mondo delirante del paziente, accettando il paziente insieme con quello che in lui può esistere soltanto in forma allucinatoria. Considera le allucinazioni e deliri un protosimbolo, punto di partenza di una simbolizzazione. Per protosimbolo Benedetti intende il delirio e l'allucinazione, che per il paziente non può ancora essere un simbolo, ma solo un segno che lo rinvia alla realtà ultima della cosa. Al tempo stesso per il terapeuta il protosimbolo è un punto di partenza per arrivare da qualcosa che chiude, a qualcosa che crea.

La positivizzazione dell'esperienza psicotica è intesa come un riconoscimento delle potenzialità espressive e comunicative della psicosi, dove in un rapporto duale, il terapeuta prende dentro di sé il paziente e i suoi protosimboli restituendo un'immagine integrata e, a partire da una fantasia comune, contribuisce allo sviluppo di un processo di simbolizzazione. Al contrario dell'interpretazione, che descrive al paziente nevrotico, capace di riflettere su di Sé, in che modo l'ombra del passato influenza il suo presente, nella positivizzazione l'analista entra nello scenario del paziente per trasformarglielo.

La positivizzazione poggia sull'identificazione parziale, che sottintende un movimento che porta il terapeuta ad entrare nella pseudologica dell'altro, a vedere il mondo con gli occhi dell'altro, a intenderlo come l'altro lo intende e rispondergli con le proprie fantasie. Non è una identificazione totale, si tratterebbe di una folie à deux, è un entrare nella psicosi, rimanendone fuori. Benedetti la distingue dall'empatia, che viene intesa come la capacità di comprendere il paziente dall'interno. Viceversa l'identificazione parziale è qualcosa di più profondo, perché il terapeuta è nella situazione del paziente, è nel luogo del paziente, ha a che fare più con il versante della compassione, del “patire con”, piuttosto che “sentire dentro”. Poggia su un sentimento di simpatia, devozione e affetto, sulla parola Liebe che l'autore utilizza nei suoi testi, che potrebbe essere tradotta erroneamente con amore ma che in tedesco ha un significato più ampio che in italiano e che designa per Benedetti quella profonda “compassione” (cum-patire = soffrire con) che riconosce il paziente e nello stesso tempo ne fa un compagno di viaggio esistenziale.
Credo che per Benedetti sia proprio questa esperienza dell'essere con a fare la differenza nell'esperienza del soggetto schizofrenico, al punto di portarlo ad un punto di contatto con l'altro. Benedetti infatti considerava la psicopatologia individuale, imprescindibile dalla psicopatologia collettiva, della società e della famiglia, che segregano nell'individuo, quel fardello incomunicabile di profonde contraddizioni che ci caratterizzano (come non emozionarsi tra le pagine 24-25-26?).

Nell'individuo si incontrano le contraddizioni di una società che pretende di essere sana nelle sue atroci guerre, persecuzioni, corruzioni, terrorismi, nascosti dietro il mantello della giustizia, della libertà, della solidarietà e di una famiglia che incorpora senza eccezione tradizioni e comportamenti disumani, in qualsiasi cultura e società.

Per Benedetti, certi individui, si fanno portatori involontari, il più delle volte sotto la spinta della coercizione, di tale fardello e tali contraddizioni. Ecco, per l'autore, nel movimento di identificazione parziale, nell'accettazione di tenere dentro di Sé quei sentimenti dolorosamente impensabili rimanendone però differenziati, c'è la possibilità di dare un incontro a questi individui.

Alla base della possibilità di positivizzazione dell'esperienza psicotica e dell'identificazione parziale, vi è la capacità di riconoscere la profonda attività creativa dell'inconscio e della psicopatologia psicotica. Benedetti diceva “io non credo che ogni paziente sia un artista, penso tuttavia che il processo schizofrenico, che è naturalmente devastante per il mondo del paziente, stimoli, in alcuni, anche la creatività, una creatività perlopiù misconosciuta dalle persone normali e riscoperta solo da chi si impegna in una relazione profonda con il paziente.[...] se ci soffermiamo solo un po' ad ascoltare ci accorgiamo che una delle reazioni al processo patologico consiste nel creare delle difese che possono avere accesso ad una dimensione creativa. […] La scoperta e la stimolazione di questo nucleo di creatività permettono al paziente di creare simboli.

Il processo di positivizzazione non è intenzionale, ma è una risposta dell'inconscio del terapeuta messo a disposizione del paziente, ed è forse a questa messa ad disposizione che il paziente risponde attraverso il fenomeno della “dualizzazione” in un passaggio tra psicopatologia regressiva a psicopatologia progressiva, dove la malattia, il sintomo e il delirio non sono più orientati a distruggere la realtà ma a costruire, non più a separare ma a dualizzare. La psicopatologia progressiva è una psicopatologia la cui funzione è di avere delle intenzioni comunicative, contrapposta alla psicopatologia regressiva che è chiusura alla comunicazione e alla realtà.
Questo credo sia stato il punto più emozionante della lettura del testo di Benedetti, la profonda umanità dell'autore lo ha portato a comprendere che, se non ho frainteso il suo messaggio, l'unico modo di avvicinare questi pazienti fosse la profonda accettazione dei loro processi mentali. Processi mentali che li portavano a delirare e ad allucinare ma che al tempo stesso erano il nucleo primo della loro individualità verso la quale l'autore ha avuto sempre una grande umiltà e un grande rispetto.

Nella psicopatologia progressiva i fenomeni psicopatologici che tagliavano fuori dal rapporto con l'altro diventano vettori di dualità: il transitivismo (un fenomeno psicopatologico in cui il paziente proietta sul mondo parti del suo sé) diventa fenomeno di comunicazione e la personificazione (introiezione della realtà nel mondo del paziente), diventa un fenomeno interpersonale.

Si va a creare un soggetto transizionale, una istanza terza, costituita da elementi proiettivi e introiettivi del paziente e del terapeuta: è una possibilità che appartiene al paziente ma che non può sussistere a prescindere dal terapeuta. E' una zona di esistenza intersoggettiva, dove si contribuisce allo sviluppo di un processo di simbolizzazione e quindi all'elaborazione del simbolo del Sé.

Tale soggetto transizionale può tramite “un'ispirazione” emergere dall'inconscio, non è una immagine ricercata, che rappresenta il più delle volte un tentativo prematuro di difesa rispetto alle angosce del paziente, ma una libera associazione che si costruisce sul materiale delirante portato dal paziente. Ed ecco che all'immagine di Cristo, masturbato da dei bambini, segue nella fantasia del terapeuta, l'immagine di un quadro, in cui Cristo abbraccia i bambini (pag68-69). La decisione del terapeuta è nel condividere o meno tale immagini, ma non è un atto produttivo conscio. La conferma o meno che i due inconsci abbiano intessuto una trama comune sta nella risposta del paziente, se include, o meno, il nuovo materiale all'interno della discorso delirante. Nella lettura del testo, non ho potuto fare a meno di chiedermi quanto queste forme di associazione fossero lontane dal concetto di rêverie. Ricordo che al seminario di Roussillon, al quale abbiamo da poco partecipato, la terapeuta, Anna Ferruta, rispondeva al termine avulso, usato dalla paziente per rappresentare il suo vissuto familiare, con l'immagine dell'azulejo, una tipica mattonella d'arte portoghese, che rappresentava in un medesimo simbolo sia il legame che la separazione. Tale mattonella infatti rappresenta un disegno individuale e al tempo stesso collettivo all'interno del murales nel quale viene collocata. L'immagine iniziale, una separazione, è stata restituita in una forma arricchita dal transito nell'inconscio dell'analista andando a formulare un simbolo dell'individualità nel collettivo, in risposta di un conflitto questa volta ad un livello non specificatamente psicotico di personalità.

Il soggetto transizionale può essere un nuovo simbolo creato all'interno della relazione terapeutica, non tutto del paziente e non tutto del terapeuta, frutto anche di un sogno gemellare, una diade di sogni che si verificano nel terapeuta e nel paziente nel corso di una stessa notte e in cui terapeuta e paziente assumono ruoli diversi e coordinati, uno rivolto verso la vita l'altro rivolto verso la morte. Tali soggetti transizionali, ad esempio un albero possente e forte (pp112/113), che compare in un sogno del terapeuta, contrapposto ad un castello circondato dal deserto sognato dal paziente, possono costituire per il paziente psicotico oggetto di contemplazione, dal quale recuperare un senso di serenità e benessere. (Per una descrizione puntuale del processo di positivizzazione attraverso il sogno gemellare che implica introiezione, identificazione parziale, creazione soggetto transizionale / comunicazione leggere pag. 176/177)

Ultimo strumento di positivizzazione dell'esperienza psicotica è il disegno speculare progressivo che si basa su un dialogo in immagini disegnate con il paziente che propone continuamente l'integrazione tra Sé simbiotico e Sé separato: quando le immagini sono sovrapposte prevale la relazione simbiotica, quando i fogli e i disegni si dividono nell'osservazione c'è il confronto con la dimensione separativa della relazione. (Da pag. 186 a 191 c'è una descrizione dettagliata del metodo.)

sabato 3 marzo 2018

Cosa rappresentano i sogni?

Freud ci ha insegnato ad attenderci dal sogno la realizzazione del desiderio inconscio: ci ha insegnato ad immaginare il processo che conduce al sogno attraverso la messa in scena del desiderio. Un desiderio che subisce l'effetto del divieto, riceve le deformazioni e le alterazioni discorsive e rappresentative che sappiamo. Ma dal sogno possiamo oggi attendere altri livelli di messa in scena. Ad essere inscenati dal sogno sono innanzitutto il proprio corpo, i suoi bisogni e le sue tensioni. La struttura portante del sogno è di tipo autoscopico. Il corpo con le sue tensioni fornisce, quinte, fondali e arredi alla fantasmagoria autoscopica di un mondo interno.  Viene data realtà di ambiente, di paesaggio, di scena a quella interiorità, bella o brutta, ricca o squallida che solo attraverso il sogno riusciamo a vedere concretamente. La realtà psichica viene rappresentata nella sua estensione immaginaria e con la sua variabile caratterizzazione. Il sogno come auto rappresentazione della psiche o della mente si serve degli elementi che la realtà dell'esperienza e del linguaggio gli forniscono, delle parole e delle cose e delle loro rappresentazioni per aggregarle nell'apparenza di un contesto spaziotemporale sottratto di diritto alle leggi della realtà. L'appagamento dell'istanza eminentemente narcisistica dell'autorappresentazione, sullo sfondo dell'invisibile schermo bianco del sogno tende a funzionare come fondamentale principio di costruzione. Gli attori convocati nel sogno rappresentano sempre le varie parti delle quali il Sé si compone, le sue differenti voci interiori, ma sono anche veri personaggi, oggetti di amore o di odio, ostacoli posti al desiderio del soggetto. Il sognatore-spettatore non è in grado di riconoscere che il suo sogno è sempre di una stoffa autoscopica e che su di essa si disegnano i suoi desideri. In  primo luogo ciò che non si è potuto realizzare, in un'esteriorizzazione accattivante entro la quale egli stesso si vede muovere, agire, dialogare.. Il teatro condivide  queste stesse caratteristiche con il sogno. Il sogno ha insegnato che occorre distinguere l'apparenza narrativa e testuale inscenata dal suo pensiero latente e che la drammatizzazione onirica avviene nel gioco tra regressione e censura. La censura esercita i suoi effetti di alterazione e mascheramento simbolico su un testo che altrimenti non sarebbe stato mai rappresentato, se non dalle allusioni del sintomo nevrotico o dalle proiezioni della paranoia, cioè in forme indecifrabili e in luoghi dove un pubblico perspicace e partecipe è solitamente assente. Va infine sottolineato un punto che accomuna la funzione onirica, la rappresentazione dell'arte e del teatro e l'interpretazione psicoanalitica. Il sogno permette di dare al desiderio che si esprime in esso una curvatura specifica del tutto generale: nel sogno non si desidera solo l'oggetto amato, assente o perduto, e che la rappresentazione onirica ricrea. La rappresentazione in opera nei sogni scongiura, domina e così allontana una minaccia. La minaccia da scongiurare è la morte, la perdita di sé o dell'oggetto d'amore, il dolore psichico travolgente e anche il rischio del disordine totale che renderebbe l'esperienza innominabile e caotica. Contro questi tipi di caduta il sogno, l'arte e l'interpretazione analitica edificano il loro ordine, l'ordine elementare di una rappresentazione, là dove l'io potrebbe venir meno o smarrirsi precipitato dalla malattia, dalla trasgressione, dalla passione, dalla punizione del dio o dalla colpa nella confusione e nell'accecamento. [Estetica del sogno e terapia a Cento anni dalla Traumdeutung]

sabato 10 febbraio 2018

Equivalenza psichica e modalità del far finta, tra tossicomania e disturbo borderline.

La modalità d'uso del linguaggio da parte del soggetto tossicodipendente è uno degli aspetti maggiormente peculiari all'interno della relazione terapeutica con esso. Tale linguaggio colpisce per quanto è stereotipato, conformista, con la tendenza a coprire più  che a svelare. Ha le caratteristiche di una voce fatua, finta, che non veicola alcun messaggio e sembra aver perso il suo scopo interpersonale a favore di uno prettamente intrapsichico. Con questo non voglio dimenticare l'uso manipolatorio del linguaggio da parte del soggetto tossicodipendente, atto ad ottenere benefici, il tiro in più di coca o il punto in più di ero, ma centrare l'attenzione sull'uso del linguaggio al fine di mantenere una omeostasi psichica, tenendo in piedi il falso Sé che spesso caratterizza questi soggetti. Ho già riportato come Ogden, in Vite non vissute descriva il pensiero magico che caratterizza alcuni persone, un pensiero magico che non descrive la realtà, ma la crea al fine di allontanare il soggetto dal conflitto tra i propri desideri e la loro realizzazione, annullando le emozioni disturbanti al costo della rinuncia a qualsiasi potere trasformativo del pensiero. Il non-pensiero magico, è un pensiero chiuso, sul quale non è possibile costruire alcunché, ma solo ulteriori stratificazioni di pensiero delirante più o meno manifesto. Fonagy nel descrivere il disturbo borderline, usando come vertice descrittivo il concetto di mentalizzazione, da una chiave esplicativa del fenomeno in cui il linguaggio non parla e non comunica alcuno stato di sé. Nel descrivere le modalità di pensiero primitive nel bambino, l'autore ne distingue una che pone sullo stesso piano l'interno e l'esterno. Nell'equivalenza psichica ciò che esiste nella mente deve esistere nel mondo esterno e ciò che esiste all'esterno deve necessariamente esistere anche all'interno della mente. La conoscenza del mondo esterno non contempla le differenze, giacché questo è isomorfico al mondo interno. Nella seconda modalità, quella del "far finta", lo stato mentale del bambino è separato dalla realtà esterna o fisica, ma lo stato interno è concepito come privo di qualsiasi connessione con il mondo esterno. L'esperienza interiore del bambino è isolata dal resto dell'io. In tale modalità non c'è alcun collegamento tra finzione e realtà, il bambino può credere, utilizzando una sedia come carro armato, che questa sia effettivamente un carro armato e non aspettarsi tuttavia che questo spari colpi veri. Tale spazio sembra essere quello che Freud nel 1924 descriveva come "un regno che fu separato dal modo esterno reale e da allora è stato risparmiato dalle esigenze e dalle necessità della vita, come una sorta di territorio protetto, non accessibile all'io ma ad esso legato in modo labile". Fonagy sottolinea come né la modalità del far finta, né quella dell'equivalenza psichica possono generare esperienze interne interamente assimilabili all'intrinseca realtà interiore; l'equivalenza psichica è troppo reale laddove il far finta eccede nell'irreale. E' dall'integrazione di queste due modalità che il bambino arriva alle strategie di mentalizzazione o funzione riflessiva, in cui i pensieri e sentimenti sono percepiti in qualità di rappresentazioni. Si riconosce il legame esistente tra realtà interna ed esterna, così come la distinzione tra le due, e non è più necessario che queste siano assimiliate oppure scisse. 
Nell'attività clinica con i pazienti borderline, le parole riferite a stati interni sono spesso le più utilizzate da parte del terapeuta con l'aspettativa che queste avranno un impatto reale sul paziente. Tuttavia quando il paziente funziona secondo le modalità del far finta, le parole possono essere comprese ma non avere implicazioni affettive per il soggetto a cui queste parole sono state dette. La terapia può andare avanti per settimane, mesi o anni, in una realtà psichica declinata secondo una modalità del far finta, laddove gli stati interni sono oggetto di lunghe discussioni, con accuratezza e complessità, senza che non si realizzi alcun progresso. Anzi, insieme ad un uso preconfezionato di termini e stati mentali, un'eccessiva complessità, un intervento simultaneo di formulazioni inconciliabili o una loro sollecita variazione sono tutti indizi rivelatori di un processo terapeutico che esita nella modalità del far finta. Ci sono moltissimi indizi che rivelano queste manifestazioni di un alto livello di mentalizzazione che in realtà rappresenta uno scivolamento nella modalità del far finta: in primo luogo il tratto ossessivo, i pazienti cominciano a trascorrere la maggior parte delle loro ore di veglia a riflettere su di sé e la loro attività terapeutica. Ma con il passare del tempo si rivela l'esistenza di schemi mentali di pensiero fortemente disomogenei che si alternano rapidamente. Pensieri e sentimenti non mostrano stabilità, il paziente sembra inconsapevole di questa contraddizione e rimane sbalordito se il terapeuta la mette in discussione. In generale è meglio non  mettere il paziente di fronte all'incongruenza, per lo meno all'inizio, poiché in una modalità del far finta essi non hanno alcun accesso a una comprensione pregressa degli altri. Infine tali elaborazioni spesso eccessivamente ricche, tal volta contorte, fantastiche o irrealistiche sono associate ad una certa riflessività che si rivela povera di implicazioni pratiche. Infine nessuno stato d'animo è realmente sentito. Il paziente parla di un affetto ma, al tempo stesso non lo sente. Nel processo terapeutico la seduzione agita dalla modalità del far finta in cui la mentalizzazione sembra ben sviluppata, aumenta la probabilità d'istruire una strada che invalida il fine stesso della terapia. Questa diventa una rappresentazione teatrale fondata su una ridondante autoreferenzialità. L'autore sottolinea come sia necessario evitare d'incoraggiare un'iperattività della mentalizzazione o pseudo mentalizzazione, evitando di parlare di stati mentali complessi, suggerisce che gli interventi siano sintetici e mirati, senza interpretazioni complesse o lunghe di stati mentali o comportamenti. Le sedute dovrebbero essere concertate e non dispersive, evitando di spingere i pazienti ad un'eccessiva elaborazione: il terapeuta deve tener presente che l'apparente capacità di mentalizzazione è in realtà un deficit e non una risorsa.

sabato 30 dicembre 2017

Appunti di clinica delle tossicodipendenze

Seguono due diverse letture della tossicodipendenza, una che la riferisce al disturbo borderline, l'altra al disturbo narcisistico. In chiusura un accenno di tecnica sulle insidie della relazione di transfert e controtransfert con il soggetto tossicodipendente e in conclusione un accenno sulle modalità peculiari di pensiero che lo caratterizzano. 

Se si ascoltano le narrazioni dei soggetti tossicodipendenti sul significato che attribuiscono all'uso di sostanze, sostanzialmente ci si arena, in prima battuta alla questione del piacere e solo in un secondo momento agli aspetti di fuga o realizzazione di una immagine idealizzata di sé che l'uso di sostanza permette. La riflessione stessa sullo scopo dell'assunzione in alcuni casi può generare fastidio e la risposta “ovvia”, se non inutile, tradendo l'aspetto difensivo del considerare l'assunzione di sostanze solo nel versante edonistico da parte del soggetto tossicodipendente. L'assunzione di sostanze può essere raccontato come un uscire da se stessi, scordarsi del proprio essere, sentirsi attraversati da desideri che da un lato diventano più forti, dall'altro per qualche ora diventano realizzabili. Con queste parole Correale identifica il conflitto di base all'uso di sostanze, che è al tempo stesso una ricerca di un rapporto più profondo con il reale ma al tempo stesso una fuga, un piegarlo al proprio desiderio. L'uso di sostanza diventa così una soglia, una soglia che porta in un mondo altro; ricordo il racconto di ospite di una comunità dove ho lavorato, che descriveva l'uso di eroina come la chiave per il mondo dei balocchi, "un mondo fantastico dove tutto è possibile", mentre mi raccontava tutto questo era facile avvertire dentro di me la sua immagine sorridente, nell'interazione con altri tossicodipendenti, con la quota di potere che l'uso di sostanza e l'attività di spaccio gli garantivano. Mi raccontava quindi della perdita delle inibizioni sociali, ma anche di quelle morali, che gli permettevano di compiere quelle diverse rapine per le quali adesso stava scontando un affidamento (misura giuridica alternativa alla detenzione) in comunità. In questa immagine è possibile quindi intravedere la complessità del fenomeno relativo all'assunzione di sostanze e la dipendenza che ne consegue. Da una parte gli aspetti personali e intrapsichici presenti nella metafora del mondo dei balocchi, che così ben si accordava con questi ragazzi, eterni pinocchio che nel processo terapeutico mirano a consumare prima lo zuccherino dell'azione pratica, per poi evitare la medicina amara dell'introspezione (la domanda del soggetto tossicodipendente all'ingresso in comunità è quasi sempre pratica, il voler ottenere il pacchetto-vita completo: casa, lavoro e compagna con poco o nullo interesse per quei fattori interni che hanno impedito il raggiungimento di questi scopi o li hanno fatti tramontare una volta raggiunti). Ma poi emergono tutti gli aspetti sociali del mondo altro del tossicodipendente, l'odiata e idealizzata “vita da strada” che lentamente il consumo di sostanze va costruendo intorno ad esso, aspetti sociali che hanno una forza strutturante l'identità della persona, limitando le possibilità di interazione con l'altro a relazioni di potere e manipolazione, modificando i sistemi di valore e i codici di interazione, andando a costituire quell'essere “antisociale”, che entra in conflitto con il sistema normativo e porta al reato, all'entrata in campo del sistema giuridico e carcerario, con tutto il potere ulteriormente strutturante che questi sistemi implicano. Al danno sociale, al danno relazionale e agli esiti giudiziari del comportamento del soggetto tossicodipendente, si somma il danno organico, sia per quanto riguarda le patologie infettive e funzionali delle quali lo stile di vita associato all'uso di sostanza aumenta il fattore di rischio, che per quanto riguarda il danno alle funzioni cerebrali. I lunghi anni di tossicodipendenza vanno infine a sommare al danno originario che ha portato all'uso di sostanze il deficit derivante da anni di interazioni mediate dall'uso di sostanze, ed è così che riprendendo la metafora della porta tra due mondi di cui la sostanza rappresenta la chiave, il soggetto tossicodipendente nel suo tentativo di rientrare nel mondo d'origine, oltre a dover affrontare tutto il carico di angosce che lo portarono a questo tentativo di fuga, si troverà di fronte ad un mondo ancor più alieno di quando lo aveva abbandonato. Vanno così a delinearsi i diversi vertici dell'intervento con il soggetto tossicodipendente, l'intervento clinico, giuridico, medico-sanitario e sociale, vertici che portano al rischio di veder fallire il progetto della persona se non portati avanti contemporaneamente, o a cicli intermittenti, ma che non possono essere appiattiti alla mera disintossicazione e al rientro nel sociale, in quanto questo ritorno riporterà a riemerge le angosce primarie, che si riaffacciano prepotentemente e rafforzate dagli anni di tossicodipendenza rendono la spinta a ritornare all'uso quasi invincibile. Emerge così che la sostanza, intesa in termini onnicomprensivi come tutto ciò che orienta la vita intorno a se stessa, che stacca lentamente dal mondo delle cose, per far entrare un mondo altro, di cui la sostanza è protagonista assoluta, passa dall'essere sintomo all'essere malattia. Nell'indagine della clinica della tossicodipendenza Correale scrive:

L'uso di sostanza in un primo tempo è l'esito di un fenomeno psichico, un pensiero, una rappresentazione, un vissuto, che deriva dall'incontro di più correnti psichiche ed espressione di una contraddizione, di una mancanza, di un tentativo di investimento più intenso del reale, di cui se ne vuole cogliere un lato nascosto, segreto e inaccessibile, ma al tempo stesso di un desiderio di ritiro dal reale, del quale si vuole cogliere solo il proprio desiderio di esso e non la sua effettiva consistenza. Ma nel tempo l'uso di sostanze e la dipendenza induce dei fenomeni di profonda modificazione secondaria del funzionamento psichico, gradualmente la mente si modella sul funzionamento della sostanza e lentamente assume modi di essere indotti dalla sostanza, per cui si pensa, si vive, si agisce sulla base degli effetti, sugli appuntamenti con la sostanza. In questo passaggio il sintomo è diventato malattia e tutte le cure corrono il rischio di diventare cura della malattia-sostanza e non dell'altra malattia: perché ho iniziato a far uso? Nel processo terapeutico è necessario arrivare al sintomo originario - perché prendo sostanze - attraverso la malattia (ti aiuto a prenderne di meno o a smettere) e solo un po' per volta si può arrivare al sintomo originario, alla mancanza e all'angoscia che hanno determinato l'uso o l'abuso della sostanza. E' una specie di cammino a ritroso, prima si affronta il problema della dipendenza, lentamente si ritorna all'angoscia originaria, che solo un po' alla volta viene a manifestarsi. 

Correale identifica quindi come stato mentale centrale nella tossicodipendenza l'angoscia, intesa con il significato dell'ultimo Freud: un segnale che avvisa del rischio, a partire da una situazione attuale, del riverificarsi di un trauma remoto. Per trauma si intende una situazione di stimolazione tale, eccitante e pericolosa assieme, che il soggetto non è in grado di rappresentare nella propria mente.  L'autore specifica in misura maggiore la qualità di questo sentimento definendolo come una angoscia di impotenza, di assoluta inermità, di essere nelle mani di qualcuno, essere in balia di, identificando tale stato mentale come tipico del soggetto borderline. La sostanza diventa quindi strumento per contrastare non solo l'angoscia conclamata, ma anche quella temuta, che si preannuncia con piccoli segnali premonitori e verso la quale non vi è completa consapevolezza. Oltre alla valenza intrapsichica dell'angoscia Correale ne sottolinea anche nella valenza interpersonale definendo il concetto di legame angosciante, legame caratterizzato da collusioni, patti inconsci, alleanze narcisistiche ed imposizioni subdole. In questo quadro la sostanza diventa uno strumento per liberarsi da questi legami, dando vita ad un mondo personale svincolato dai legami stessi, sia attraverso un isolamento grandioso e inattaccabile, sia nella ricerca spasmodica di chi condivide totalmente il mondo parallelo che si ricerca di creare, sia attraverso l'accettazione di quei legami che si sottomettono, in forma totale di subordinazione, al desiderio del tossicodipendente.

Tra i diversi disturbi di personalità che possono sfociare nella dipendenza l'autore identifica il disturbo borderline, non tanto inteso con la categoria diagnostica del DSM, ma come una situazione di personalità caratterizzata da una tendenza quasi costante alla disforia, intendendo con questo termine una scontentezza diffusa, una irritabilità, una reattività intesta e talora anche violenta a ogni genere di stimolo con caratteri di negatività. A tale stato di umore si associano comportamenti impulsivi, facilità agli acting, incontenibilità degli impulsi. Tali caratteristiche comportamentali portano a rapporti fondamentalmente instabili, caratterizzati da alternanze di benessere e malessere, affettuosità e polemica rotture e riconciliazioni, spesso nell'arco di tempi brevi.

Una descrizione secondo una diversa prospettiva è quella di Pinamonti che descrive la dipendenza patologica come caratterizzata da un'ansia specifica che esprime un senso di insicurezza generale, accompagnato da una eccessiva preoccupazione per l'immagine di sé e da un sentimento diffuso di incapacità a gestire le relazioni con gli altri e le richieste della realtà. Una peculiare forma di depressione, caratterizzata da un sentimento di fondo di sfiducia di sé e conseguentemente di sfiducia per il proprio futuro ed è permeato da cronici sentimenti di noia ed insoddisfazione e da momenti in cui emerge un acuto senso di vuoto. Nessuno di questi può però considerarsi un sintomo secondo la prospettiva psicoanalitica classica, ossia come l'espressione simbolica di un conflitto tra una pulsione che preme per un desiderio, e l'altra di natura difensiva, che vi si oppone. Il sintomo è infatti rappresentazione di un compromesso, ossia qualcosa di leggibile e interpretabile. Diversamente dal registro nevrotico, l'incapacità di costruire soluzioni simboliche è tipico della dipendenza patologica e si include all'interno del deficit di struttura. Tale deficit è un deficit narcisistico, collegato a specifiche aree che rappresentano il senso di identità, sicurezza e separatezza del Sé. Accanto quindi alla difficoltà di simbolizzazione, si riscontra la difficoltà ad identificare le emozioni, alle quali il soggetto si riferisce unicamente secondo la polarità malessere e benessere, condizione legate all'alessitimia. Il soggetto tossicodipendente fatica a delineare i confini tra Sé e Altro, a causa dei bisogni simbiotici e i profondi meccanismi di difesa che mette in campo per mantenere un senso di separatezza. La scarsa autostima deriva infine da un Super-Io primitivo e rigido, per il quale il senso della colpa non è parziale e totalizzante e l’Ideale Sé è improntato ad una richiesta di perfezione che lo rende schiacciante. Infine la difficoltà a prendersi cura di Sé porta il soggetto a sottovalutare i rischi legati al comportamento di dipendenza, con conseguenze autodistruttive in quanto non vi è percezione interna di pericolo, in questo caso nuovamente più che all'interno di un masochismo che appartiene al registro nevrotico ci si trova di fronte ad uno specifico deficit della capacità di prendersi cura di Sé.

Un ulteriore aspetto sottolineato dall'autore, riprendendo la definizione di Bollas relativa alle aree non pensabili della mente, riguarda una difficoltà di mentalizzazione di alcuni stati affettivi sorta da una non responsività della madre nei primissimi mesi di vita del bambino. Parla di relazione psicocorporea, all'interno del quale, il bambino, la cui mente è ancora indistinguibile dalla reazione corporea, impara attraverso la lettura della madre a leggere e contenere a sua volta i suoi stati fisico/emotivi. Una non corrispondenza durante i primi mesi di vita, che porta a fraintendere, se non addirittura a travisare gli stati del bambino, porta alla creazione di aree emotive che non possono essere pensate e quindi tanto meno espresse.

In adolescenza il difetto primario, ossia il deficit narcisistico e le difficoltà di simbolizzazioni portano il soggetto impreparato ad compito evolutivo di definire la propria identità sessuale. Questo passaggio, con il ripresentarsi dello scenario edipico, dovrebbe portare il soggetto alla perdita della dimensione simbiotica e di trasformazione dell'assetto onnipotente alla capacità di tollerare il confronto con il limite. Se in questo passaggio evolutivo il padre non fa da sponda, offrendosi come oggetto identificatorio e come modello, porta il soggetto a percepire la relazione con la madre come realmente incestuosa, vedendo ancora aumentata la propria onnipotenza, per il trionfo sulpadre e il venir meno del timore della castrazione, inteso come possibilità di accettare il limite. All'interno di questo scenario il Sé si inflaziona, il soggetto non può quindi passare da un Io ideale grandioso ad un ideale dell'io che regola l'autostima e sostiene mete e progetti all'interno di una prospettiva temporale esponendolo quindi al crollo narcisistico conseguente il confronto con la realtà e i relativi sintomi ansioso e depressivi già menzionati precedentemente.

Pinamonti scrive: "La sostanza in questo quadro assume quindi il ruolo di soluzione più che di sintomo, l'assunzione permette infatti di evacuare la tensione emotiva sostituendosi al pensare, attività che porterebbe ad aumentare tale tensione. La dimensione onnipotente di controllo delle emozioni, e la percezione di padronanza acquisita in questo modo, neutralizzano la bassa autostima. Il relazionarsi con la sostanza permette al soggetto l'instaurarsi il legame con un oggetto concreto, nella sicurezza del suo ritrovamento, che al tempo stesso funziona anche come difesa relazionale perché sostituisce gli intensi bisogni di dipendenza dall'altro preservando i confini del se e tutelandolo dall'esposizione alla frustrazione e alla disillusione dei legami. In questo quadro l'assunzione di sostanza permette di sopperire alla carenza di narcisismo, di ristabilire l'omeostasi del sé attraverso il ripristino dell'immagine onnipotente: nell'atto di assunzione il soggetto mette in atto una sorta di compulsione a ripetere in cui ricrea uno stato simbiotico ideale che soddisfa i suoi bisogni ponendolo al riparo dalla frustrazione. In questo modo il soggetto ripara, sia pure provvisoriamente i buchi del suo tessuto narcisistico. Il quadro di precario equilibrio si rompe quando il soggetto si sente controllato dalla dipendenza e si ripresenta quindi l'angoscia di essere inglobato nell'oggetto."

Etchegoyen nell'analisi del transfert del soggetto tossicodipendente, intende come tale ogni paziente che ricorre all'alcol o alle droghe come principale mezzo per mantenere l'equilibrio psichico, per alleviare l'ansia e per procurarsi una sensazione di piacere e di benessere. In particolare viene sottolineato come l'impulso del tossicodipendente diventa impossibile da soddisfare in quanto non nasce da un bisogno ma dall'avidità all'interno di una personalità caratterizzata da conflitti pregenitali ai quali si aggiungono pulsioni aggressive molto forti che si declinano nelle varianti sadiche e masochistiche. La rappresentazione della sostanza appare quindi come un oggetto idealizzato e oggetto cattivo e persecutore, portando ad una contemporanea idealizzazione e al rifiuto più severo, la sostanza cambia nella mente del tossicodipendente da strumento che protegge da ogni possibile dolore a persecutore capace delle più crudele distruzione. Tali vicissitudini coinvolgono anche la relazione transferale che oscilla continuamente dall'amore all'odio, dalla tenerezza alla più estrema violenza. La tossicodipendenza di transfert porta ad esperire l'analista come droga e antidroga: la relazione è possibile solo quando l'analista si trasforma nella sua droga (salvatrice e distruttrice) e allo stesso tempo, il legame di sana dipendenza analitica viene inteso, soprattutto per invidia, come minaccia della peggiore tossicodipendenza.

Lavorando in contesti comunitari è possibile identificare questi movimenti transferali non solo sulle singole figure curanti, ma sul contesto stesso di cura, la comunità arriva ad essere descritta alternativamente come possibilità di riscatto e come fonte peggiore di sofferenza. Il legame di reale dipendenza, che implica l'accettazione dei limiti della propria condizione, il bisogno dell'altro e la sua presenza vera, non solo immaginaria viene temuto e allontanato.

Un tratto distintivo della tossicodipendenza di transfert è che la dipendenza analitica tende a trasformarsi in un legame tossicomanico, di modo che la relazione analitica oscilli pendolarmente tra dipendenza e tossicomania. All'interno di questo legame è necessario identificare e interpretare la tendenza del paziente a ricevere le interpretazioni come una droga. Il tossicodipendente ricerca il flash (l'intensa sensazione di calore e piacere che procura l'assunzione di sostanza), e può arrivare a fare lo stesso uso dell'interpretazione, come anche del rimando educativo, che viene percepito come una salvifica rivelazione che non attiva però alcun processo trasformativo. Di contro si può andare configurando una situazione particolarmente dolorosa per l'analista ad opera dell'identificazione proiettiva: esso è il tossicodipendente dal suo paziente al solo scopo di soddisfare l'ossessione di curarlo e di ripulirlo, cioè usandolo come oggetto-cosa per risolvere i propri problemi personali.

Ogden individua tre diverse forme di pensiero: magico, onirico e trasformativo. La prima forma è quella che più frequentemente si incontra con il soggetto tossicodipendente. Tale forma di pensiero ha un obiettivo principale, l'evitare di affrontare la realtà della propria esperienza interna ed esterna, tale obiettivo è raggiunto tramite uno stato della mente in cui l'individuo crede di aver inventato la realtà in cui lui e gli altri vivono. In questo modo la sorpresa emotiva e gli incontri con l'imprevisto sono forclusi dall'esperienza. Con lo scopo di salvaguardare l'integrità del suo sé il soggetto si difende attraverso fantasie onnipotenti virtualmente onnicompresive che lo distaccano dalla realtà esterna, tanto che il pensiero diventa delirante e allucinatorio. Avviene così un progressivo deterioramento della capacità dell'individuo di distinguere il sogno dalla percezione, il simbolo dal simbolizzato.  Questo porta ad una situazione in cui il paziente tratta i suoi pensieri e sentimenti come se fossero fatti, e non esperienze soggettive. A titolo di esempio: nella mania e l'ipomania il soggetto ricorre a difese maniacali per avere un controllo assoluto sull'oggetto mancante. Dunque non ha perso l'oggetto, lo ha rifiutato, non piange, ma celebra la perdita dell'oggetto perché sta meglio senza di lui, la perdita non è una perdita perché l'oggetto è deplorevole e privo di valore. La parola perde così il proprio valore, ci si può rivolgere ad un'altra persona in modo crudele e poi credere di poter letteralmente riprendersi il commento (ricreando al realtà per esempio dicendo che era uno scherzo). Il pensiero magico è molto conveniente, in quanto si ovvia al bisogno di affrontare la verità di quello che è accaduto. Ma per quanto sia conveniente il pensiero magico ha un inconveniente primario: non funziona, non si può costruire nulla su di esso, se non ulteriore strati di costruzioni magiche. E' un pensiero privo di aderenza al mondo reale, a ciò che è al di là della propria mente, costituisce un attacco sia al riconoscimento della realtà sia al pensiero stesso, coincidendo quindi con una forma di anti-pensiero). Niente o nessuno può essere costruito sul pensiero magico poiché "la realtà" onnipotente creata manca di quell'assoluta inamovibilità della alterità propria della realtà esterna concreta. L'esperienza dell'alterità della realtà esterna è necessaria per la creazione un'autentica esperienza di sé. Se non c'è un non-me non può esserci nemmeno un me.

[continua]

sabato 11 novembre 2017

Impressioni sul convegno "La rivoluzione intersoggettiva. Le implicazioni per la psicoanalisi e la psicoterapia"

L'ho sentito un convegno tra passato e futuro, durante il quale ho avvertito il senso di comunità come i personalismi dei singoli.
E' stata una occasione nella quale è emerso il desiderio di conoscere la figura di Benedetti che riecheggiava con affetto in alcune presentazioni, a partire dalle prime parole di Maggioni, in cui ne ha accennato la passione e l'instancabilità della pratica psicoanalitica fino ad arrivare alle parole di affetto e referenza nell'intervento di Elia: è una sensazione strana avvertire come dietro un maestro ce ne sia sempre un altro.
Un convengo dal passato al futuro, una psicoanalisi che da un punto tende ad un altro, questa tensione è un asse che si avverte in tutte le presentazioni, dal descrivere il passaggio da una psicoanalisi del conflitto a una del deficit, dalla teoria alla clinica, dalla neutralità alla relazione come praxis. Una psicoanalisi in tensione tra ricordo e futuro e che vuole essere in un mutamento, guarda fuori dalla finestra alla ricerca di una alterità con la quale rinnovarsi.
Se un asse del convengo è stata questa tensione di mutamento che, citando le suggestive parole di Gallese, poggia sulla possibilità linguistica della negazione, “il motore cognitivo di quello che siamo, costantemente insoddisfatti di quello che abbiamo”, un secondo è stato quello che si può riferire alla domanda sulla propria identità. Suggestivo è stato l'intervento di Torres nel descrivere le vicissitudini di chi è messo di fronte alla scelta fra il negare la propria identità e rischiarare di essere guardato con sospetto ed escluso, come gli ebrei spagnoli che scelsero di convertirsi per rimanere in Spagna oppure scegliere per l'esilio e la dimenticanza dei Sefarditi.
La paura della perdita dell'identità della psicoanalisi, ne ho sentito il riverbero, in una questione che più volte è balenata nell'uditorio, ha senso cercare di portare il linguaggio psicoanalitico all'interno dei fenomeni fisico-biologici del cervello? Si può cercare un referente fisico, riducendo l'Io e l'Es ai neuroni, o si rischia di creare il dato e di fare dell'immagini di fMRI una realizzazione del desiderio? Paura di snaturare il senso della propria disciplina in questo incontro, paura che riemergeva anche nelle parole di Gallese che ammoniva dal porre una sconsiderata fiducia nelle neuroscienze, per prevenire una reazione di restaurazione, da parte di chi vorrebbe arrivare alla conclusione che è inutile porre domande al cervello in quanto è un organo troppo complesso per fornirle.
Mi permetto di andare di libera associazione su questi due giorni in cui si sono susseguiti interventi e personalità, voci e discorsi diversi e non posso fare a meno di ripensare al desiderio, che è riconosciuto da Elia alla base della terapia delle psicosi: è il trasfert desiderante dell'analista che stimola, attraverso la simulazione incarnata, l'imitazione, l'identificazione e in fine la funzione riflessiva in persone in cui il desiderio appare assente. Nel suo ricordare che la psicoanalisi è, oltre alla disciplina dell'inter-soggettività, quella della verità, ho avvertito l'importanza di non perdere di vista le origini e di non dimenticarsi del piacere della scoperta dell'inconscio.
Una scoperta, che mi porto a casa da questo seminario è la centralità del corpo, considerando che uno degli aspetti più suggestivi della psicoanalisi è stata per me la sua centratura sul linguaggio. Ma il corpo è stato un ulteriore asse di questi due giorni di convengo, il corpo sospeso nell'acqua a trentasei gradi della terapia amniotica di Peciccia. Il prendersi cura del paziente psicotico attraverso l'esperienza fisica di contenimento dell'acqua, nell'abbraccio di diversi terapeuti e il successivo momento di riflessione e libera associazione attraverso il commento delle foto che ritraevano quegli istanti. E' stato suggestivo leggere nelle parole di un individuo schizofrenico il lento riacquistare un'identità corporea, il riappropriarsi dei propri confini. Suggestiva la teoria che il delirio persecutorio, protegge il sé fragile, attraverso l'inaspettata iper-attivazione della simulazione incarnata. Ma nuovamente è stata centrale la richiesta di andare con il passo lento dello scienziato, attento a non fare indebite generalizzazioni di associazioni e correlazioni e per il quale l'individuazione di nessi causali è evento raro e prezioso. L'attenzione a non prendere lucciole per lanterne e risolvere nell'illuminarsi di un'area del cervello in una fMRI la questione di come questo operi durante l'elaborazione dell'esperienza dell'altro, del proprio essere in relazione all'altro e degli affetti che entro questa relazione si sperimentano.
La seconda giornata di convegno si è avviata sempre su questo tema, su come porre le basi di questa coevoluzione tra psicoanalisi e neuroscienze, evitando però di fare scientismo e confusione. Una nuova tensione, tra passato e futuro, è stata introdotta: dal primo pensiero freudiano che considerava la relazione come qualcosa dalla quale astenersi, al pensiero attuale che la considera, tra transfert e controtransfert, uno degli strumenti privilegiati della terapia ad orientamento psicoanalitico in cui la praxis sviluppa quindi un ruolo di prim'ordine, all'interno di quella inter-soggettività linguistico-corporea, che caratterizza la diade paziente terapeuta.
Affascinante è stato ascoltare l'intervento di Kernberg sui correlati neurologici delle relazioni oggettuali, teoria più volte studiata attraverso la mediazione di un docente o la lettura di un libro. Fa un effetto particolarmente suggestivo ascoltare un pensiero scientifico da chi lo ha prodotto. E' affascinante osservare la correlazione tra i meccanismi di scissione psichica e l'incapacità a livello della corteccia orbitofrontale di coordinale l'attività delle aree di controllo degli affetti positivi e negativi e di integrare l'esperienza emotiva attuale con l'esperienza emotiva della memoria esplicita ed implicita del passato.
Ed è in questo passaggio che ho avvertito la difficoltà di ricondurre il vocabolario del mentale a quello del fisico, difficoltà che avverto nel passare ad una descrizione della scissione basata sull'incapacità di tollerare l'ambivalenza, rispetto al considerarla frutto di una diversa attivazione della corteccia prefrontale. In questo passaggio ho l'impressione che si perda un aspetto volitivo nell'esperienza psichica della scissione. La possibilità di scelta mi è sembrato essere un grande assente di questo convegno, la possibilità di scelta che Freud riconsegnò in mano ai suoi neurotica, superando la concezione dell'isteria come frutto di una degenerazione neurologica, a favore di quella di un atto volitivo inconscio, un atto creativo di gestione di un conflitto. Spero che siano i correlati neurali della libertà di scelta il tema del prossimo convegno, in questo forse solo accennati nelle parole di Gallese, che invitava a ricordare come la libertà dell'uomo è quella di inibire una risposta, citando forse le ricerche di Libet, in cui si mostrava l'esistenza di processi di presa di decisione inibitoria e inconsapevole.

Ascoltare Gallese è stato prima di tutto un piacere, la sua prudenza, che lo ha portato più volte a ricordare l'errore del tentativo di tradurre uno a uno l'attività psichica in attività neurale. Ha ricordato la fondamentale irriducibilità del linguaggio mentale con l'attività legata “ad una manciata di ioni che determina l'eccitazione o l'inibizione di quella unità morfo-funzionale che è il neurone”. Importante è l'ammonimento a ricercare un aumento delle capacità esplicative nella descrizione del cervello per evitare di essere i frenologi del nuovo millennio. L'obiettivo per le direzioni future: la costruzione se non di un linguaggio comune, di uno che permetta il passaggio fruttuoso di conoscenze tra una disciplina e l'altra. Nelle parole di Gallese emerge un secondo suggestivo obiettivo: quello di costruire una scienza dell'esperienza inter-soggettivita. Il corpo riemerge anche nelle parole di questo scienziato che, con referenza nei confronti di Kant, mette in discussione il valore fondativo delle categorie di tempo e spazio, mettendo come condizione non ulteriormente riducibile dell'esperienza umana il corpo. Avviandomi alla conclusione, un ulteriore asse di tutto il convengo, e in particolar modo dell'ultima parte, riguardava i concetti di neotenia e immaturità alla nascita dell'uomo, che unico tra tutte le specie, porta a termine la propria maturazione diversi mesi dopo essere nato. Ci si è interrogati rispetto a che cosa lo si può considerare immaturo, costatando che l'uomo è per sua caratteristica in mutamento ed evoluzione “noi siamo coloro che divengono... in costante divenire”. Il bambino può essere considerato immaturo rispetto ad una relativa indipendenza, condizione che lo pone alla mercé della madre, tanto che nell'osservazione della scena di allattamento nella presentazione di Ammanniti, credo che più di una persona abbia potuto fare esercizio di contenimento di controtransfert. Ma è in questo legame di assoluta dipendenza, che si sviluppa la mente umana, legame suscettibile allo stress durante la gravidanza, un parto difficile o per l'assenza della figura paterna. E' in tutta quella serie esperienze di sintonia e dissintonia, che si costruisce o non si costruisce una rappresentazione unitaria di sé e dell'altro in relazione, positivamente e negativamente connotata. Legame che si trasmette a livello intergenerazionale, attraverso quella che Freud nel 1914 chiamò compulsione a trasmettere ogni perfezione ai propri figli e della relativa tendenza dei figli a cercare di aderirvi. Asserzione con le quale Freud pose le basi del concetto di identificazione proiettiva e quindi di quella psicoanalisi inter-soggettiva che ci troviamo oggi a discutere. 

sabato 15 luglio 2017

Principi di psicoterapia psicoanalitica

Quanto espresso da Luborsky in “Principi di psicoterapia psicoanalitica” rappresenta una schematizzazione di quanto accade naturalmente nella mente analiticamente orientata quando ascolta, lasciando che la attenzione si muova liberamente su quanto portato dal paziente, costatando connessioni, ridondanze e mutamenti, fino a che il materiale e le relazioni di causa effetto che lo caratterizzano portano a delle ipotesi sul funzionamento mentale di chi parla.
La manualizzazione e schematizzazione della psicoterapia analiticamente orientata può portare a storcere il naso a chi concepisce l'analisi come strumento di indagine dell'inconscio e quindi presuppone l'esistenza di un materiale altro, sotteso al primo, che si può cogliere concedendosi il lusso del tempo, del silenzio, della frequenza degli incontri e quindi del costo del trattamento. La manualizzazione della psicoterapia psicodinamica risponde però alle legittime richieste di economia, sia in termini di spesa, ma anche di durata e frequenza, per quei pazienti che entrano in terapia con il desiderio di essere restituiti alla loro quotidianità attraverso una riduzione della sintomatologia e un rafforzamento del carattere.

Lo scopo dell'ascolto del terapeuta, secondo il modello del CCRT di Luborsky, è teso all'individuazione della relazione che intercorre tra i sintomi più fastidiosi e la sofferenza psichica, con il contesto interpersonale in cui queste si situano. Nel far questo il terapeuta si riferisce a tre ambiti in cui questo rapporto tra sintomi e relazioni emerge, ossia in quanto raccontato sulle relazioni attuali, con amici, conoscenti, fidanzati e in quanto raccontato sulle relazioni passate, all'interno della famiglia di origine e con le figure parentali di riferimento. Infine, il contesto privilegiato di osservazione è la relazione attuale tra terapeuta e paziente.
In quest'ultimo contesto il terapeuta ha la possibilità di localizzare i sintomi del paziente e di capire come si manifestano, in questo caso per sintomo si intende una momentanea disfunzione di una capacità usualmente intatta, ad esempio un'amnesia, un silenzio o la perdita di coerenza del linguaggio, come anche reazioni emotivamente intense, siano queste di rabbia, ma anche e specialmente di ansia o tristezza. Molto spesso basta riferirsi a pochi attimi prima nel discorso per rintracciare i desideri o le aspirazioni che li hanno generati. Nel far questo ci si riferisce oltre che all'interno della relazione paziente terapeuta, nel qui ed ora della relazione analitica, anche agli episodi relazionali del presente come del passato.
Nell'ascolto del materiale del paziente l'osservazione dell'emergere di un particolare stato affettivo deve essere oggetto di indagine dell'analista, “che succede?” “Ci deve essere un pensiero che spiega la sua tristezza in questo momento qui con me” “Cerchi di capire che cosa l'ha fatta sentire di nuovo depresso” sono espressioni utilizzabili dal terapeuta per approfondire quei momenti di cambiamento affettivo rilevanti all'interno del discorso del paziente, che può passare da stati di rilassamento, a stati di tensione, ansia o tristezza.
La formulazione del tema relazionale conflittuale centrare è basato quindi su due procedimenti principali. Da una parte l'indagine degli episodi relazionali, attraverso la diade desiderio/conseguenza e l'espressione di tale tema nella formula standard di una frase contenente due elementi principali, un'affermazione riguardante questi desideri, bisogni o intenzioni del paziente, per esempio “Io desidero qualcosa da (una persona)” e un'affermazione riguardante le conseguenze del tentativo di ottenere da quella persona l'appagamento del proprio desiderio, riferendosi ad una risposta del Sé “ma mi turba” o dell'altro “Ma sarò rifiutato”
Il tema relazionale conflittuale centrale può essere quindi inteso come la percezione da parte del paziente di certi situazioni di pericolo evocate da altre persone, che implicano tipicamente momenti di disperazione attesi o ricordati, e perciò associati all'ansia.

In conclusione i sintomi possono essere intesi come erronei e costosi tentativi di risolvere i problemi, generalmente problemi relazionali. Dopo aver individuato il tema desiderio conseguenza, e dopo aver pensato alla conseguenza come un tentativo di soluzione, l'ulteriore ascolto permetterà poi di saggiare altre soluzioni alternative. E' consigliabile lasciare al paziente a presentare queste soluzioni come tali, piuttosto che proporle come terapeuti. Teoricamente ci sono sempre molte possibili soluzioni e praticamente può essere difficile dire quale tipo di soluzione sia quella che il paziente può e vuole tentare. [Principi di psicoterapia psicoanalitica, L. Luborsky]

sabato 11 marzo 2017

Studio del capitolo 4 “Per la psicoterapia dell'isteria” In studi sull'isteria 1892



Freud avvia la descrizione del psicoterapia dell'isteria definendo le relazioni tra sintomo, ricordo, affetto, rappresentazione, discorso e coscienza.
 
“Trovammo infatti, in principio con nostra grandissima sorpresa, che i singoli sintomi isterici scomparivano subito e in modo definitivo quando si era riusciti a ridestare con piena chiarezza il ricordo dell’evento determinante, risvegliando insieme anche l’affetto che l’aveva accompagnato, e quando il malato descriveva l’evento nel modo più completo possibile esprimendo verbalmente il proprio affetto.” […] “Esso elimina l’efficienza della rappresentazione originariamente non abreagita, in quanto consente al suo affetto incapsulato di sfociare nel discorso; e la conduce alla correzione associativa, traendola nella coscienza normale (nell’ipnosi leggera) o annullandola mediante suggestione del medico, così come accade nel sonnambulismo con amnesia”
 
Se è ben chiaro il rapporto tra sintomo, ricordo, affetto, rappresentazione e discorso (Il sintomo si risolve, attraverso il ricordo dell'evento e dell'affetto associato e attraverso l'espressione verbale). Più oscuro è il rapporto tra ricordo-affetto e rappresentazione, non è ben chiaro se siano coincidenti o se vi è qualche elemento di differenza, nelle pagine seguenti definisce un esempio di “rappresentazione” patogena, di una paziente affetta da tosse nervosa: “non la si amava, le si preferiva chiunque altro, e neppure meritava di essere amata, eccetera. Alla rappresentazione dell’“amore” era però collegata qualche cosa alla cui comunicazione era sorta una grave resistenza. L’analisi fu interrotta prima della spiegazione.”
 
Se quindi il ricordo è assimilabile ad un episodio concreto, la rappresentazione appare assimilabile ad una astrazione da una molteplicità di ricordi.


Nel testo approfondisce quindi alcuni aspetti, genetici, etiologici e differenziali, dei diversi quadri psicopatologici trattabili e non trattabili attraverso il metodo catartico. Riconosce che la causa determinante dei disturbi nevrotici è da imputare a fattori sessuali, e che dalla differenza di tali fattori derivava anche la differenza tra le diverse malattie nevrotiche. (Vedi approfondimento in Neuropsicosi da difesa)
 
Freud distingue quindi La nevrastenia: una patologia alla cui base non vi erano meccanismi psichici. Nevrosi di angoscia: un quadro di sintomi nevrotici, dipendenti da una eziologia diversa rispetto alla nevrastenia, ossia l'accumulo di tensione fisica, di origine sessuale, che ha impatto sulla vita psichica attraverso una “attesa angosciosa”, caratterizzata da fobie, iperestesia per i dolori. (L'ipocondria ne rappresenta una declinazione, ma non va a saturarne le possibili manifestazioni). La nevrosi ossessiva: alla cui base si poteva riconosce un meccanismo psichico complesso ma chiaro, e trattabile attraverso la psicoterapia e le nevrosi isteriche distinte in isterie da difesa, ipnoidi e da ritenzione, anche se alla fine, le riconduce tutte (solo a livello ipotetico per rispetto a Breuer) al medesimo meccanismo ossia la mobilitazione di una difesa contro una rappresentazione inaccettabile. E ne distingue l'indicazione del metodo catartico:
 
 “Mi azzarderei infatti a dire che, in linea di principio, esso è senz’altro in grado di eliminare ogni e qualsiasi sintomo isterico, mentre, come facilmente si comprende, è assolutamente impotente contro i fenomeni della nevrastenia, e soltanto raramente e per vie indirette influisce sugli effetti psichici della nevrosi d’angoscia.” [...]All’efficacia del metodo catartico, è posta inoltre una seconda limitazione cui abbiamo già fatto cenno nella “Comunicazione preliminare”. Esso non influisce sulle premesse causali dell’isteria; non riesce dunque a impedire che si formino nuovi sintomi in luogo di quelli eliminati.”
 
Va poi a delineare una prima bozza dei criteri che diverranno quelli di analizzabilità, e che in questo caso si limitano all'applicabilità o meno del metodo catartico sia per quanto riguarda il medico che il paziente e che rappresentano già un primo abbozzo delle vicissitudini transferali e controtrasferali che avvengono nel percorso di cura.
 
Il procedimento è faticoso e sottrae molto tempo al medico, presuppone in lui un grande interesse per fatti psicologici, ma anche un interessamento personale per il malato. Non saprei immaginare di riuscire a immergermi nel meccanismo psichico di un’isteria in una persona che mi apparisse volgare e ripugnante, che, conosciuta più da vicino, non fosse in grado di destare simpatia umana.”
 
“Al di sotto di un certo livello d’intelligenza, il metodo non è assolutamente applicabile, e qualsiasi elemento di debilità mentale lo rende estremamente difficile.”
“È necessario il completo consenso, la piena attenzione dei malati, ma soprattutto la loro confidenza, dato che l’analisi conduce regolarmente ai processi psichici più intimi e segreti.”
“Ben difficilmente si riesce a evitare che il rapporto personale verso il medico, almeno per un certo tempo, si ponga indebitamente in primo piano; sembra anzi che un’influenza di questo genere da parte del medico costituisca la condizione che sola consente la soluzione del problema”
 
Nel secondo paragrafo approfondisce il suo metodo “oltre l'ipnosi”, spiegandosi  refrattarietà di alcuni pazienti a questo metodo come una espressione più o meno consapevole di una volontà contraria all'ipnosi stessa.
 
Lo strumento utilizzato è “l'insistenza” ad andare oltre al “non sapere nulla” o “oscuri ricordi senza riuscire ad approfondire”, all'insistenza veniva alternata “la rassicurazione” che qualcosa sarebbe venuto alla mente. Attraverso lo stendersi, lo stare ad occhi chiusi e concentrarsi, questo processo, portava costantemente a ricordare elementi antecedenti e connessi all'argomento (sintomo) trattato. E' all'interno di questi processi che sorge l'ipotesi che alla rievocazione delle rappresentazioni patogene fosse anteposta una “resistenza” ossia una forza psichica che si opponeva al divenire cosciente di tali rappresentazioni e che aveva cooperato alla genesi del sintomo isterico.
 
Nel passaggio successivo approfondisce quindi i rapporti tra rappresentazioni patogene, gli affetti tipici corrispondenti, le conseguenti reazioni dell'Io e le motivazioni alla base dell'esito patogeno di queste reazioni.
 
Da esse, potei stabilire un carattere generale di queste rappresentazioni: erano tutte di natura penosa, idonee a provocare gli affetti della vergogna, del rimprovero, del dolore psichico, della menomazione, e nell’insieme tali che si preferirebbe non averle vissute e che si vorrebbe piuttosto dimenticare. Da tutto questo emerse spontaneamente l’idea della difesa. È infatti generalmente ammesso dagli psicologi che l’accettazione di una nuova rappresentazione (accettazione nel senso del credervi, del riconoscerne la realtà) dipenda dalla specie e dall’orientamento delle rappresentazioni già riunite nell’Io. Nell’Io del malato si era introdotta una rappresentazione che si era dimostrata insopportabile, che aveva suscitato da parte dell’Io una forza ripulsiva, il cui scopo era la difesa contro quella rappresentazione insopportabile. Questa difesa era effettivamente riuscita, la rappresentazione era stata scacciata dalla coscienza e dalla memoria, e apparentemente la sua traccia psichica non era più ritrovabile. Questa traccia tuttavia doveva esserci. Se mi sforzavo di orientare l’attenzione su di essa, mi accadeva di avvertire come resistenza la stessa forza che, nella genesi del sintomo, si era presentata come ripulsa. Se io fossi ora riuscito a rendere plausibile che la rappresentazione fosse diventata patogena proprio in conseguenza della ripulsa e della rimozione, il cerchio appariva chiuso.”
 
Lo scopo quindi del medico è quello di orientare, attraverso l'insistenza, l'attenzione del malato sulle rappresentazioni prossime a quello dimenticate, per permetterne il ricordo. Come ulteriore strumento si introduce “la pressione sulla fronte” e la prima declinazione della “regola fondamentale” dell'analisi:
 
“Egli vedrà innanzi a sé come immagine, o gli verrà in mente come idea, un ricordo, e gli impongo di comunicarmi tale immagine o tale idea, quali essi siano. Egli non deve tenerla per sé perché forse ritenga che non sia la cosa cercata, la cosa giusta, o perché gli sia troppo sgradevole dirla. Nessuna critica, nessuna riserva, per motivi di affetto o di disprezzo! Solo così ci è possibile trovare quel che si cerca, e solo così lo si trova di certo.”
 
Nelle pagine successive descrive la natura associativa dei legami tra i diversi ricordi, e come il riemergere del dimenticato non è mai diretto, ma avviene attraverso il ricordo di diversi ricordi/anelli intermedi, passaggio che non è evitabile in quanto:
 
La rappresentazione patogena – che, del resto, senza un lavoro preparatorio, strappata dal suo contesto, sarebbe incomprensibile – ma ha mostrato la via ad essa e la direzione nella quale l’indagine deve procedere.”
 
Dopo aver delineato quindi lo strumento dell'insistenza, dell'orientare la concentrazione, del rassicurare, dell'imporre le mani, e della “regola fondamentale” al fine di superare le “resistenze” che impediscono alla rappresentazione patogena di ritornare alla memoria, vengono approfondite le diverse modalità attraverso le quali le resistenze di presentano e in particolar modo le caratteristiche dei ricordi patogeni, o di quelli ad esso associati.
 
“Il ricordo patogeno si riconosce dunque, oltre che da altre caratteristiche, dal fatto di essere definito dal malato inessenziale e tuttavia di venire comunicato solo con resistenza. Vi sono anche casi in cui il malato cerca di negare pur dopo che è riemerso: “Adesso mi è venuta in mente una cosa, ma questa evidentemente me l’ha suggerita Lei”, oppure: “So ciò che Lei si aspetta con questa domanda. Lei crede certamente che io abbia pensato questo o quello.”
 
Vengono poi approfonditi i casi nei quali l'imporre le mani fallisce, o perché il procedimento viene applicato a fenomeni non analizzabili, in quanto somatici, o perché l'assenza di una ulteriore reminescenza è reale: tale aspetto lo si può osservare nel volto del paziente, e dai segni di tensione relativi al tentativo di difesa che il paziente sta mettendo in atto.
 
Successivamente approfondisce diverse questioni relative all'organizzazione associativa tra le diverse rappresentazioni patogene e non, interrogandosi sul fatto che fosse opera di una intelligenza che coesiste a livello temporale con quella presente (una seconda personalità), oppure che fosse frutto di un lavoro psichico temporalmente precedente. Un secondo aspetto indagato e la forma:
 
“pluridimensionale, a stratificazione per lo meno triplice del materiale psichico di una isteria basata su una pluralità di rappresentazioni patogene, associate a una pluralità di traumi parziale e concatenamenti di processi ideativi patogeni”.
 
Tale stratificazione del materiale psichico attorno alla rappresentazione (o rappresentazioni patogene), è organizzatile attraverso una disposizione cronologica lineare che si realizza all'interno di ogni singolo tema. Uno riferibile al diverso grado di resistenza, man mano crescente, mentre si avvicina al nucleo patologico. La terza si riferisce il legame dato dal filo logico che giunge fino a tale nucleo, attraversando rappresentazioni con valori diversi sia cronologicamente che per livello di resistenza.
 
La connessione logica corrisponde non soltanto a una linea spezzata a zigzag, ma piuttosto a una linea ramificata, e più precisamente a un sistema di linee convergenti. Esso ha punti nodali nei quali due o più fili s’incontrano per proseguirne uniti; e al nucleo fanno capo in genere più fili aventi andamenti tra loro indipendenti, oppure collegati in certi punti da tratti laterali. È assai notevole, per dir le cose con altre parole, osservare quanto spesso un sintomo sia determinato in vari modi, sia sovradeterminato.”
 
Successivamente approfondisce la descrizione del nucleo patogeno, mettendo in discussione la metafora del “corpo estraneo”, afferma come tale descrizione sia fallace in quanto il gruppo psichico patogeno non è distinto dall'Io (non lo si può enucleare, i suoi strati esterni vi si confondono e sono posti in modo arbitrario dall'analisi). Oggetto della terapia non è quindi l'estirpazione di alcun ché ma è liquidazione del fattore che distingueva il gruppo psichico patogeno dal resto dell'Io e ne poneva i confini, ossia la resistenza.
 
Viene nelle pagine successive descritta ancora in modo più approfondito il procedere della terapia, che non può, anche qualora fosse stato rintracciato, partire dal nucleo patogeno primario:
 
“Se pur si riuscisse a indovinare tale nucleo, il paziente non saprebbe che farsene della spiegazione così offertagli in regalo, e non ne verrebbe modificato psichicamente.”  
Attraverso la rassicurante insistenza del medico, affinché il materiale dimenticato venga ricordato, si procede, lungo il filo logico delle rappresentazioni, entro i diversi livelli di resistenza, quando se ne supera uno, si accede al successivo strato, il più delle volte le rappresentazioni sembreranno sconnesse per riacquistare significato in seguito, il paziente approfondisce le rappresentazioni in senso periferico (ed orizzontale), il medico in senso radiale, seguendo il filo logico delle associazioni del paziente. Tale lavoro di profondità non può essere demandato alle comunicazioni spontanee del paziente” in quanto  
 
“La descrizione del paziente sembra completa e conchiusa in sé. Ci si trova in principio davanti a essa come davanti a un muro, che sbarra la vista e non lascia sospettare se vi sia qualche cosa al di là e cosa sia. Quando tuttavia si esamina con occhio critico la rappresentazione che si è ottenuta dal paziente senza molta fatica e resistenza, si scoprono infallibilmente in essa lacune e difetti. a connessione è visibilmente interrotta ed è rabberciata dal malato con un modo di dire o con un’informazione insufficiente; là s’incontra una giustificazione che in una persona normale si dovrebbe dire molto debole. Il paziente non vuole riconoscere queste lacune quando si richiama la sua attenzione su di esse. Il medico però ha ragione di cercare dietro questi punti deboli il passaggio al materiale degli strati più profondi, di sperare di trovare proprio qui i fili del nesso che insegue con il procedimento della pressione.”
 
“Quando non si riesce a vincere rapidamente la resistenza, si deve ritenere di avere seguito il filo fin dentro uno strato che per il momento è ancora impenetrabile. Lo si lascia allora cadere per afferrarne un altro che forse potrà essere seguito fino a un punto altrettanto lontano. Quando con tutti i fili si è giunti nello stesso strato, e vi si sono trovati i nodi a motivo dei quali il singolo filo isolato non poteva più essere seguito, si può pensare ad aggredire nuovamente la resistenza che ci sta di fronte.”
 
Nelle ultime pagine viene affrontato il ruolo della relazione con il medico nel lavoro della terapia catartica, tale relazione è centrale, affinché si superi l'effetto delle resistenze. In questo passaggio, vengono definiti due aspetti della transfert, il primo relativo “al timore di abituarsi troppo alla persona del medico, di perdere la propria indipendenza nei suoi confronti, e persino di poterne dipendere sessualmente” il secondo relativo “al fatto di trasferire sulla persona del medico le rappresentazioni penose che emergono dal contenuto dell’analisi. Ciò è frequente, e anzi in alcune analisi è un fatto generale. La traslazione  sul medico avviene per falso nesso.”
 
“Un certo sintomo isterico in una delle mie pazienti era stato il desiderio, concepito molti anni prima e subito ricacciato nell’inconscio, che l’uomo col quale stava conversando si fosse fatto coraggio e afferrandola l’avesse baciata. Una volta, alla fine di una seduta, sorge nella paziente un desiderio analogo nei riguardi della mia persona; essa ne è terrorizzata, passa una notte insonne e la volta dopo, pur non rifiutando il trattamento, si dimostra del tutto inutilizzabile per il lavoro. Conosciuto ed eliminato l’ostacolo da parte mia, il lavoro procede nuovamente, ed ecco che ora il desiderio che aveva tanto spaventato la paziente riappare come ricordo, il primo dei ricordi patogeni ora richiesti dalla connessione logica. Le cose si erano quindi svolte nel modo seguente. Dapprima era emerso nella coscienza della paziente il contenuto del desiderio, senza i ricordi delle circostanze accessorie che avrebbero permesso di localizzare questo desiderio nel passato. Il desiderio così presente, in base alla coazione ad associare che dominava la coscienza, era stato collegato con la mia persona, a cui era consentito che la paziente rivolgesse la sua attenzione, e in seguito a questa mésaillance – che io chiamo “falso nesso” – s’era destato lo stesso affetto che, a suo tempo, l’aveva costretta a rifiutare quel desiderio illecito.”
 
Le modalità di trattamento di tali impedimenti sono le medesime di qualsiasi resistenza ossia rendendo cosciente dell'ostacolo la paziente. Chiude il capitolo con la celebre definizione del destino della trattamento analitico:
 
“Mi son sentito spesso obiettare dai miei pazienti, quando promettevo loro aiuto o sollievo per mezzo di una cura catartica: “Ma se dice Lei stesso che il mio male si collega probabilmente alla mia situazione e al mio destino: a quelli Lei non può certo recare alcun mutamento. In qual maniera mi vuole allora aiutare?” Ho potuto loro rispondere: “Non dubito affatto che dovrebbe essere più facile al destino che non a me eliminare la Sua sofferenza: ma Lei si convincerà che molto sarà guadagnato se ci riuscirà di trasformare la Sua miseria isterica in una infelicità comune. Contro quest’ultima, Lei potrà difendersi meglio con una vita psichica risanata.”